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31 luglio 2012 2 31 /07 /luglio /2012 11:16

Le notizie che arrivano dalla Francia, ove il Paris Saint Germain sta spendendo decine e decine di milioni come fossero bruscolini, confermano un fatterello che molti avevano già intuito: Michel Platini predica bene, ma razzola male. Il numero uno della UEFA, dopo averci ammorbato con le graziose barzellette sul fair play finanziario, ed aver mnacciato tuoni e fulmini su chi avesse avuto l'ardire di infrangerlo, ha praticamente smarrito la favella di fronte allo scandalo infinito rappresentato da cifre come i 16 milioni e rotti di euro concessi dal club parigino a Zlatan Ibrahimovic e ai 180 milioni spesi in un solo anno dal club preso dagli sceicchi un anno fa. Probabilmente qualcuno aveva preso sul serio Monsieur Platini quando questi aveva annunciato urbi et orbi la sua crociata contro un modo di fare calcio che è ormai anacronistico di fronte ad una crisi che sta spingendo verso la povertà milioni e milioni di persone che vedono i propri livelli di vita, compressi dalle conseguenze delle follie della finanza creativa e di bilanci statali dissestati. Adesso, lo sappiamo: quelle di Platini erano millanterie, piccole sbruffonerie di un signore che si crede importante e che invece è solo una figura di paglia che non vede l'ora di mettersi prono di fronte ai desiderata dei potenti. Del resto lo sanno bene quei soci dell'Arsenal che avevano già fatto ricorso all'UEFA per veder sanzionato il Manchester City, altro club guidato da bambinoni arabi annoiati da una vita troppo agiata e aduso a fare carta igienica coi regolamenti finanziari annunciati dall'UEFA. Anche loro, rimasti sinora senza risposta, mentre il prode Roberto Mancini, altra faccia di tolla inarrivabile, mette le mani avanti annunciando che senza 3 o 4 acquisti la sua squadra non è competitiva a livello internzionale. Per capire di cosa si stia parlando, basti pensare che i Citizens, solo nell'ultimo anno hanno proceduto a saccheggiare mezzo mondo, portandosi a casa i vari Nasri, Yaya Tourè, Balotelli, Kolarov, Clichy, Aguero, solo per fare i primi nomi che vengono in mente. Intanto Michel Platini continua a sonnecchiare e a pensare al suo prossimo grande discorso, per il quale l'immensa Mina aveva scritto l'epitaffio migliore una quarantina di anni fa: parole, parole, parole... 

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12 giugno 2012 2 12 /06 /giugno /2012 09:54

 

In questi primi giorni, gli Europei di calcio che si stanno disputando in Polonia ed Ucraina, si sono distinti non per la qualità del gioco espresso dalle squadre in campo, bensì per le schifose manifestazioni di razzismo propinate senza soluzioni di continuità dagli hooligans russi e da altre tifoserie imbottite di alcool e stupidità in egual misura e pronte a subissare di fischi i giocatori di colore che militano nelle squadre presenti alla kermesse. Di fronte a simili manifestazioni di oltraggiosa imbecillità, viene da chiedersi a cosa serve il filmato che ci viene graziosamente propinato prima di ogni gara, nel quale la UEFA chiede “respect” ai tifosi e ai giocatori, senza poi intervenire con la durezza draconiana che quanto sta accadendo imporrebbe a dirigenti con un minimo di sale in zucca e pronti ad assumersi la loro responsabilità. Ormai è del tutto chiaro che l’unico modo di contrastare il fenomeno, è quello di sospendere le gare alla prima manifestazione di razzismo, ma al contempo emerge nel modo più netto come questo non accadrà sicuramente. Perché stiamo parlando di una massa di burocrati, quelli della UEFA, capaci solo di grandi dichiarazioni di principio, che però regolarmente vengono disattese. Basti pensare al tronfio “fair play finanziario “ di cui parla in continuazione Michel Platini, la cui attuazione non è mai stata attuata, tanto da consentire a squadre come Chelsea, Manchester City e Paris Saint Germain, di spendere e sp0andere senza alcuna regolamentazione, drogando un mercato che è stato reso impraticabile a chi non disponga di una borsa estremamente capiente. Sono gli stessi burocrati che a livello politico hanno trasformato l’Europa, quella stessa parte del mondo che una volta era caratterizzata da un livello di vita altissimo dovuto in particolare allo Stato Sociale, in una landa desolata che si impoverisce ogni giorno di più sotto i colpi delle lobbies finanziarie che secondo gli stessi burocrati non debbono essere toccati in quanto i mercati sono sovrani. Ecco, proprio quanto sta succedendo a livello di Comunità Europea, fa capire come anche in questo caso nessuno farà nulla e i neonazisti russi, insieme ai loro comparucci di imbecillità provenienti da altri paesi, continueranno a fare il loro comodo senza che nessuno dica nulla. In fondo, gli affari sono affari e Platini e compagnia sono assisi sulle loro poltrone per fare la bella vita, senza faticare troppo… 

 

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3 maggio 2012 4 03 /05 /maggio /2012 16:51

 

GrandeTorinoIl 4 maggio del 1949, nella più terribile sciagura del calcio mondiale, periva il Grande Torino, la squadra che sotto la guida di Ferruccio Novo era diventata negli anni del dopoguerra il miglior simbolo della ricostruzione in atto in italia dopo i disastri del Ventennio fascista, culminato nel conflitto fortemente voluto da Mussolini. Mentre tornava da una trasferta a Lisbona, organizzata per onorare l’addio al calcio giocato del portoghese Ferriera, l’aereo che stava portando i giocatori a casa, andò a terminare la sua corsa sul Muraglione di Superga, ponendo fine alla leggenda della più grande squadra mai apparsa sui campi italiani.
Erano le 17,05 quando avvenne il terribile schianto contro il muraglione esterno della Basilica e la notizia della sciagura fece rapidamente il giro del mondo destando lo stupefatto dolore di addetti ai lavori e non, tutti colpiti in maniera terribile dalla ferale notizia. Una notizia che coinvolgeva la comunità internazionale, se si pensa che insieme agli altri, erano periti due francesi, un inglese e un cecoslovacco. Alle ore 20, toccò al presidente federale Barassi il penoso compito di commemorare alla radio i giocatori scomparsi, senza peraltro riuscire a portare a termine il compito, causa la commozione che gli serrò la gola.
In quella che era la più grave sciagura mai occorsa sino ad allora nel calcio mondiale, morirono tutte le trentuno persone che costituivano la comitiva: i giocatori Valerio Bacigalupo, Aldo e Dino Ballarin, Emilio Bongiorni, Rubens Fadini, Eusebio Castigliano, Ruggero Grava, Guglielmo Gabetto, Ezio Loik, Franco Ossola, Virgilio Maroso, Julius Schubert, Mario Rigamonti, Giuseppe Grezar, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti e Pierino Operto, i dirigenti Rinaldo Agnisetta e Ippolito Civalleri, l'allenatore Leslie Lievesley e il direttore tecnico Anton Erbstein, il massaggiatore Ottavio Cortina, i giornalisti Renato Casalbore, Luigi Cavallero e Renato Tosatti, l'organizzatore Andrea Bonaiuti, oltre all'equipaggio composto dal capitano Pier Luigi Meroni, dal secondo pilota Cesare Biancardi, dal capo marconista Antonio Pangrazi e dal motorista Celeste D'Inca.

Tutta la città di Torino, senza distinzione di colori calcistici, si strinse attorno alle salme in maniera commossa, come del resto l'Italia, che proprio in Valentino e compagni, aveva visto uno dei simboli del ritorno del paese alla normalità dopo la fine del conflitto. La commozione con cui fu vissuta la tragedia del Grande Torino, era direttamente proporzionale alla gioia che la squadra aveva generosamente dispensato nel corso della sua parabola agonistica. Ancora una volta, fu Ottorino Barassi a rivolgere l'ultimo appello agli scomparsi, chiamando uno per uno i giocatori scomparsi e procedendo alla simbolica premiazione per la vittoria del quinto scudetto (che era stato assegnato su impulso unanime delle società di serie A). L’ultimo ad essere chiamato fu proprio Valentino Mazzola, in qualità di capitano, al quale Barassi si rivolse in questo modo: "Capitan Valentino questa è la Coppa, la quinta Coppa, sorridi. E' una coppa grande, la coppa del Torino. Guarda come è grande. E' tanto grande che non ne vedo nemmeno i contorni. E' grande come il mondo, perchè contiene il cuore di tutto il mondo. Senti questo cuore come freme, sentilo, ascoltalo Valentino. Questo grande cuore dice: Dio vi benedica..." 
Il 4 maggio del 1949, può essere considerato il giorno nero del calcio mondiale: per la prima volta, una intera squadra, e che squadra, scompariva simultaneamente per un incidente aereo. Ci sarebbero state altre tragedie come questa, ma nessuna colpì il mondo calcistico in analoga maniera. Basterebbe leggere le parole dell’Equipe, per comprendere il dolore unanime che unì il calcio mondiale: "Il lutto del calcio italiano è lutto mondiale e quasi a implacarne il carattere internazionale, il destino ha voluto che della tragica comitiva facessero parte due francesi, due ungheresi (Schubert era di origine ungherese, Ndr.) e un inglese." Il 15 maggio, dopo che per giorni era continuato l’afflusso commosso di migliaia e migliaia di persone alle tombe dei caduti, undici maglie granata sbucarono nuovamente dal sottopassaggio del Filadelfia, per giocare col Genoa, come preventivato dal calendario prima della tragedia. Ad indossarle, erano i ragazzi del vivaio, chiamati a concludere giocando contro i coetanei delle squadre avversarie, il torneo 1948-49, quello che andava a sigillare, nel modo più drammatico possibile, la leggenda del Grande Torino. Gli stessi ragazzi coi quali amava trascorrere molto del suo tempo Lievesley e che nel corso degli allenamenti studiavano i movimenti dei grandi, sperando un giorno di prenderne il posto: mai però avrebbero immaginato di farlo in modo così tragico.

Il sentimento dominante, durante e dopo i funerali, fu lo sbigottimento, tanto da spingere il Tifone giornale sportivo di Roma, a varare un titolo capace di rendere in maniera esemplare l'ondata di affetto che accompagnò i giocatori nel loro ultimo viaggio terreno: "Non credevamo di amarli tanto." Un affetto che non riguardò, ancora una volta, solo il nostro paese. L'ultima appendice della sciagura, infatti, fu la gara tra una squadra composta da molti dei migliori elementi del nostro calcio, il Torino Simbolo, e il River Plate. I dirigenti argentini infatti, non appena ebbero appresa la notizia della tremenda sciagura, decisero di testimoniare la loro vicinanza agli scomparsi e al Torino, mettendosi a disposizione per una amichevole a favore dei familiari delle vittime e senza pretendere una sola lira. Fu così sancita nel modo migliore la solidarietà internazionale verso una squadra e una città così duramente colpite. La partita del 26 maggio, finita 2-2, suggellò definitivamente la storia di una squadra che non sarebbe mai più uscita dal cuore degli Italiani.

 

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3 aprile 2012 2 03 /04 /aprile /2012 17:11

 

Insomma, anche stavolta ce l’abbiamo fatta a distinguerci. Non bastava il primo calcioscommesse, nell’ormai lontano 1980, e nemmeno il secondo. Proprio per non farci mancare nulla, adesso arriva la terza edizione di una saga che rischia di oscurare quella del Grande Fratello e di avere infiniti sequel. Con l’arresto di Andrea Masiello, difensore ex Bari, reo confesso di un clamoroso autogol durante una delle partite incriminate, il nuovo scandalo del calcio italiano entra nella sua fase più calda, che sicuramente farà sudare freddo a molte tifoserie sparse lungo lo stivale. Purtroppo, si può essere sicuri che ancora una volta a pagare sarà l’unica parte sana del fenomeno pallone, proprio quella costituita dai milioni di tifosi che ancora si ostinano a pensare che il calcio sia quello che abbiamo conosciuto da bambini, quando le figurine Panini e “Tutto il calcio minuto per minuto” scandivano la settimana di un paese che si muoveva all’unisono in attesa delle quattordici e trenta di ogni domenica pomeriggio, quando dal sottopassaggio degli stadi spuntavano le canoniche magliette della propria squadra.
Di fronte al ripetersi ormai ciclico di episodi come questi, si capisce come il nostro paese sia condannato alla logica gattopardesca del “cambiare tutto, affinché nulla cambi”. Ogni volta, le istituzioni calcistiche ci hanno promesso che non sarebbe più successo e, inevitabilmente, ogni volta abbiamo dovuto sorbirci una replica di un copione rancido, fatto di partite truccate e accordi sottobanco tra calciatori incontentabili, vere e proprie sanguisughe alla ricerca di espedienti per arrotondare i propri già ricchi emolumenti. Del resto, in un paese ove non si riesce a far tesoro dei propri errori e si ripreparano le condizioni per una infinita Tangentopoli, dopo il malaffare scoperchiato dall’inchiesta di Mani Pulite nel 1993, è del tutto logico che possa accadere con puntualità quello cui oggi siamo di nuovo condannati ad assistere. Basterebbe fare un giretto su quanto proposto dalla televisione, per assistere stralunati alla fantasmagoriche esternazioni di un signore che si chiama Luciano Moggi, riverito ed onorato come se fosse una divinità in trasmissioni che rappresentano una vera e propria istigazione a delinquere. Nelle quali viene rivoltata come un guanto la verità processuale e si presenta una versione della realtà che è modellata sugli interessi di persone per giudicare le quali basterebbe dare una semplice occhiata alla fedina penale. Che del resto, altro non sono che la versione sportiva di quegli uomini politici che, ad onta di condanne passate in giudicato, siedono sugli scranni del Parlamento e fanno bella mostra dello status di intoccabili consegnatogli da partiti che si fanno beffe di valori come l’onestà. L’emblema di questi politici non può che essere Luciano Ciarrapico, l’ex presidente della Roma distintosi nella prima metà degli anni ’90 per aver affondato il bilancio giallorosso e per essere stato tradotto a Regina Coeli nell’ambito di una delle tante inchieste che lo hanno visto protagonista in negativo. Del resto siamo in Italia, il paese che ha avuto come Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e allora perché stupirci? Adesso aspettiamo solo il quarto atto del Calcioscommesse…      

 

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13 marzo 2012 2 13 /03 /marzo /2012 09:13

 

Quale è il più grande giocatore di calcio di ogni epoca? E’ una di quelle domande cui è estremamente difficile rispondere e per ovvi motivi. Il primo dei quali consistente nel fatto che lo sport pedatorio vive ormai da molto più di un secolo e che, di conseguenza, chi volesse provarsi nell’impresa dovrebbe avere una età molto avanzata, perlomeno quella in grado di avergli consentito di godere delle imprese di quelli che, a detta della maggioranza degli esperti, sono i fuoriclasse che si contendono la palma: Pelè, Maradona e Messi. Da parte mia, avendo visto Maratona dal vivo, mi consento di depennare il suo nome dalla lista e di ridurre il potenziale triello ad un duello tra Pelè e Messi. E qui il compito si fa veramente difficile. Chi ha visto i Mondiali messicani del 1970, ha ancora negli occhi le gesta di Edson Arantes Do Nascimento nel corso di quella kermesse iridata, in particolare l’incredibile stacco aereo che gi consentì di librarsi in aria più in alto e più a lungo di Burgnich per mandare la palla nell’angolino basso della porta difesa da Albertosi. Una rete magnifica, ma soprattutto indice di una potenza atletica spesso sconosciuta ai grandi virtuosi del football, i quali, spesso, proprio dalla mancanza di adeguati mezzi fisici hanno preso lo spunto, da piccoli, per dedicarsi alla cura dei fondamentali tecnici, unico modo per elevarsi dalla massa non avendo il conforto di un fisico adeguato. Pelè, invece, riusciva ad unire potenza fisica e tecnica sopraffina, come del resto ben ricorda chi, proprio nel corso dei Mondiali messicani del 1970, lo vide colpire al volo un rinvio del portiere uruguayano Mazurkiewicz, sfiorando la clamorosa rete da oltre sessanta metri.  Secondo alcuni addetti ai lavori, l’unica controindicazione che potrebbe impedire a Pelè di fregiarsi di re del calcio di ogni epoca, starebbe nel fatto che non avrebbe mai avuto l’occasione di misurarsi col calcio europeo, considerato da sempre più complicato di quello in voga in Brasile. In effetti, il calcio verdeoro non ha mai brillato né da un punto di vista organizzativo, tanto che solo in tempi abbastanza recenti i tornei regionali hanno lasciato la preminenza al vero e proprio campionato nazionale, né tanto meno dal punto di vista tattico, in quanto per molti decenni, i brasiliani hanno ritenuto un vero e proprio reato di lesa maestà cercare di impedire alla tecnica di fare il suo corso, aborrendo quei machiavellismi tattici che invece hanno sempre trovato grande fortuna in Europa. Tanto da potersi affermare che proprio dal Vecchio Continente, sono sempre arrivate le grandi rivoluzioni calcistiche, come il Sistema, il Catenaccio o la Zona.
Ora veniamo a Messi, che tutti abbiamo la fortuna di poter ammirare nella costruzione di una carriera che rischia di non avere eguali. Ormai di lui sappiamo praticamente tutto e non c’è giocata da lui dispensata che non trovi una adeguata copertura mediatica. A suo favore, gioca la ancora giovane età, che lascia presagire ulteriori sviluppi non tanto da un punto di vista tecnico, quanto da un punto di vista mentale, quello che forse, sinora, si è rivelato il piccolo tallone di Achille della Pulce argentina. Un difetto che gli ha sin qui impedito di lasciare il segno anche a livello di Nazionale, tanto da aver spesso spinto la stampa del suo paese a critiche probabilmente esagerate. Su di lui pesa anche il fallimento della spedizione sudafricana, anche se non era tutto da addebitare a lui quanto non fatto da una selezione che era attesa a ben altro risultato. Quanto però fatto con il Barcellona, ha realmente dell’incredibile. Basti ricordare, tanto per rimanere al presente, la strepitosa cinquina rifilata al Bayer Leverkusen, con tutta una serie di numeri che non possono non lasciare a bocca aperta chi ama il calcio.
Come si può comprendere, siamo di fronte ad un dilemma di non facile soluzione. Da una parte, un Pelè capace di segnare oltre mille reti in carriera e di vincere la bellezza di tre mondiali, oltre ai trionfi con la sua squadra di club, il Santos. Dall’altra, un Messi che pur giovanissimo si avvia a battere ogni record in fatto di segnature a livello di club e di riconoscimenti, ma non ancora decisivo come potrebbe a livello di Nazionale.  Ecco, se proprio si dovesse essere costretti ad una scelta così difficile, si dovrebbe perlomeno aspettare che anche Messi abbia terminato la sua carriera e trarre un bilancio esaustivo da essa. Se l’argentino riuscisse a vincere anche i Mondiali con la Seleccion, allora la palma del migliore non potrebbe che spettargli di diritto.    

 

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24 novembre 2011 4 24 /11 /novembre /2011 19:07

 

Sindelar.jpgIl calcio, sin dai primi anni susseguenti alla sua nascita. ha incontrato grande favore nelle masse popolari del Vecchio Continente. Sino a diventare il gioco per eccellenza delle stesse. E di conseguenza, è diventato un veicolo estremamente appetibile per la propaganda dei regimi totalitari, che si resero subito conto del suo ascendente. Mussolini fu il primo ad intuire le grandi potenzialità in tal senso dello sport inventato in Inghilterra. Spesso lo si poteva trovare sulle tribune di Testaccio o della Rondinella ad assistere alle partite di Roma e Lazio, mentre molti dei suoi gerarchi si davano da fare a favore delle squadre per cui tifavano o della propria città, cosa che poteva avere un ritorno di immagine non indifferente. lo stesso Mussolini, tra l'altro, fu socio della Lazio, squadra che ebbe non pochi aiuti dal regime. Il più clamoroso e sfacciato di questi aiuti, fu quello riguardante Silvio Piola, indirizzato di forza verso Roma dal tesoriere del PNF Marinelli, nonostante il vercellese avesse già firmato un precontratto che lo legava al Torino. Il nazismo, non fu comunque da meno. Basti pensare alla partita che si svolse il 3 aprile del 1938, al Prater di Vienna, che sarebbe a lungo rimasta nella storia del calcio. La gara, doveva essere il suggello sportivo all'Anschluss, la pratica annessione dell'Austria alla Germania, e per dare il maggior risalto possibile, le nazionali di calcio dei due paesi erano state chiamate ad una partita che sarebbe dovuta essere l'ultima del famoso Wunderteam austriaco, squadrone creato da Hugo Meisl negli anni precedenti. Dopo questa partita, infatti, la squadra austriaca, un odei colossi del tempo, si sarebbe dovuto sciogliere e i suoi migliori atleti avrebbero dovuto confluire nella squadra tedesca, fornendole quella fantasia di cui necessitava per poter aspirare a vincere la Coppa Rimet del 1938, come era nei desiderata della federazione teutonica, ormai ridottasi a puro strumento di propaganda in mano alla NSDAP. Sesi pensa che ai Mondiali italiani, l'Austria era arrivata quarta e la Germania terza e l'unione della forza fisica dei teutonici con la grande fantasia e tecnica che erano il tratto distintivo della selezione austriaca, la fondatezza del progetto sembrava garantita. Il problema, che era stato visibilmente sottostimato dai dirigenti tedeschi, stava però nell'orgoglio degli austriaci e nel loro attaccamento alla piccola Austria sorta dopo la prima grande guerra. Gli austriaci, in magigoranza, non si sentivano tedeschi, perlomeno quelli che non erano stati conquistati al nazismo. Basti pensare che lo stesso Meisl, morto da non molto tempo, una volta aveva tenuto a rimarcare la diversità dei suoi uomini dicendo che erano tutti boemi. Se qualcuno pensava che il problema sarebbe stato facilmente appianato, non aveva capito quanto stava maturando.
Prima di andare avanti nel racconto di quella partita, bisogna però fare un passo a ritroso nel tempo, andando al 10 febbraio del 1903, quando, a Kozlov, nella Moravia austriaca, nasceva Mathias Sindelar, discendente di una famiglia ebrea che di lì a poco si sarebbe trasferita a Vienna. Nella metropoli austriaca, la famiglia Sindelar trovò alloggio in un quartiere della cintura operaia, ove visse in condizioni economiche molto precarie, che furono presto aggravate dalla morte del capostipite, avvenuta nel 1917 in una trincea dell'Isonzo, nel corso di una delle tante terribili battaglie che caratterizzarono la Grande Guerra sul fronte italiano. La vedova Sindelar, per cercare di reagire al colpo portato dal destino, decise di aprire una lavanderia che divenne un prezioso supporto economico per una famiglia che contava anche tre bambine, mentre il piccolo Mathias cominciava a farsi notare per la stupefacente abilità con la quale riusciva a trattare una palla di stracci per le strade del "Favoriten", il quartiere delle fabbriche viennesi. Ben presto, la sua fama si sparse, tanto da richiamare gli osservatori dell'Herta, colpiti dalla sua tecnica portentosa e dall'abilità nel dribblare gli avversari. La sua naturale crescita tecnica, spinse anche il club più prestigioso della città, il Wiener Amateure, la famosa squadra che avrebbe poi mutato il suo nome in Austria Vienna, ad interessarsi di quel piccolo fenomeno di cui tutti dicevano meraviglie. Sindelar, messo sotto contratto, divenne presto il giocatore più rappresentativo dell'Austria, proprio grazie alla tecnica portentosa affinatasi nel corso degli esercizi con la palla di stracci. E il suo soprannome "cartavelina", dovuto alla esilità del suo fisico, si trasformò presto nel sinonimo di quello che era forse il miglior giocatore del Vecchio Continente. Quando sembrava che nulla potesse fermarlo, arrivò però un infortunio al ginocchio, che sembrò porre fine in maniera prematura alla sua carriera. In quegli anni, infatti, un semplice intervento al menisco era di solito la pietra tombale per la vita agonistica di un calciatore. Non fu così, per Sindelar, il quale decise di sottoporsi all'intervento, dopo il quale applicò una terapia rieducativa che per l'epoca era una novità e con una feroce applicazione riuscì a tornare sui campi, anche se da allora gli sarebbe rimasta, a ricordo, una vistosa bendatura che aveva il compito di proteggere l'arto dai colpi degli avversari. Tornò come se non fosse successo nulla e ricominciò a giocare da par suo. Nel corso di una partita disputata dall'Austria a Londra contro l'Inghilterra, nel 1932, segnò una rete la cui bellezza è resa bene dalle parole dell'arbitro, il belga Langenus: "Il goal di Sindelar fu un autentico capolavoro. Sindelar partì dalla metà campo e, con il suo inimitabile stile, superò semplicemente chi gli si parava davanti, alla fine fece due dribbling tornando indietro e depose la palla in rete." Dopo questa impresa,ne seguirono molte altre, come quella compiuta contro l'Ungheria, quando Sindelar realizzò tre delle otto reti con cui il Wunderteam demolì i magiari, fornendo gli assist per le altre cinque. Non era perciò una esagerazione indicarlo come il calciatore europeo più forte e più famoso della sua epoca. Naturalmente, su di lui si appuntarono gli sguardi dei tedeschi, quando fu elaborato il piano che, nelle intenzioni dei promotori, avrebbe dovuto portare la Germania a vincere la Coppa Rimet. C'era però quel piccolo particolare sulle origini ebraiche di Sindelar a porre una inquietante ombra su tutta la vicenda. Se all'inizio sembrò che si potesse appianare la vicenda, quello che successe nel corso della partita tra Austria e Germania, accelerò drammaticamente gli avvenimenti. Quel giorno, infatti, il Wunderteam, o meglio ciò che rimaneva di esso, dopo la morte di Meisl, sconfisse la Germania per 2-1 di fronte a 60.000 stupefatti spettatori e, naturalmente, Sindelar fu il protagonista più fervido di quella impresa. E non poteva che essere così, visto che negli ultimi anni, aveva dovuto assistere attonito alla montante marea antisemita fomentata dai nazisti e che aveva colpito moltissimi suoi amici e conoscenti, a partire dai dirigenti dell'Austria Vienna, i quali erano stati rimossi a forza dai loro incarichi, nonostante il ruolo attivissimo che avevano avuto nel corso dell'ascesa di questa squadra, che, negli anni '30, aveva dominato la scena europea. Forse, mentre giocava, a Sindelar tornarono alla mente gli avvenimenti degli ultimi anni, o forse la sua intatta classe era semplicemente troppa per i monotoni avversari, fatto sta che proprio lui fu autore di una delle prove più belle di una strepitosa carriera e sua fu la rete decisiva del 2-1 che fece impazzire di gioia le migliaia di austriaci che interpretarono nella vittoria di quel giorno una ultima, orgogliosa, affermazione di spirito nazionale. Alla fine della gara, i giocatori austriaci avrebbero dovuto sfilare davanti alla tribuna delle autorità, per poi salutare col braccio teso i gerarchi che la affollavano. Sindelar, e con lui il fidato compagno Karl Sesta, si rifiutarono di fare quel semplice gesto, che non sentivano loro. Un piccolo gesto, dalle terribili conseguenze. Per Sindelar, era la condanna definitiva. Da quel momento, nonostante Herberger avesse provato a convincerlo a partecipare ai Mondiali, non ci fu per lui alcuno schermo protettivo. Il 23 gennaio del 1939, fu trovato morto nella sua casa, accanto alla sua compagna, una ebrea italiana, Carla Castagnola, ormai entrata nel coma che la avrebbe condotta alla morte pochi giorni dopo. La polizia austriaca, di solito meticolosa, chiuse in fretta e furia l'inchiesta, affermando che il decesso di Sindelar fosse dovuto ad avvelenamento da monossido di carbonio, conseguente alla perdita di una stufa difettosa. Non ci credette nessuno, troppo forte il sospetto che ad organizzare l'omicidio fosse stata la Gestapo. Nel frattempo, la sede dell'Austria Vienna era tempestata di telegrammi di cordoglio provenienti da tutta Europa, anticipazione di quanto sarebbe successo al funerale, quando ben 40.000 persone, nonostante i tentativi nazisti di ostacolare il tutto, mettendo a tacere quanto successo, si presentarono per dare l'ultimo saluto a quello che era stato definito il Mozart del football.

 

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3 novembre 2011 4 03 /11 /novembre /2011 10:11

MauthausenL’ultima parte del regime fascista, precipitò l’Italia in una guerra civile sanguinosissima, che vide sostenitori e avversari di Mussolini affrontarsi in un vero e proprio regolamento di conti atteso per anni da chi era stato costretto a rifugiarsi all’estero o aveva trascorso lunghi periodi di detenzione nelle galere fasciste.Una guerra civile, che ebbe riflessi, e non poteva che essere così, anche sul calcio italiano. Furono infatti molti i calciatori che decisero di non poter assistere senza fare nulla, in un momento in cui il disfacimento del regime mussoliniano veniva pagato a caro prezzo dalle popolazioni civili, strette nella tenaglia degli eserciti belligeranti. Soprattutto nella parte settentrionale del paese, ove si era installato il regime fantoccio di Salò, l'ultima parte della guerra arrivò ad assumere toni drammatici, caratterizzati dai sanguinosi rastrellamenti nazifascisti e i martellanti bombardamenti alleati, mentre dalle montagne cominciavano a scendere in pianura le formazioni partigiane. Nella atmosfera di disfacimento che stava portando alla fine della dittatura, si intrecciarono i destini di molti atleti e allenatori che avevano avuto spesso un ruolo di grande rilievo nelle domeniche spensierate che avevano accomunato gli italiani prima dello scoppio del conflitto. Ci fu chi decise di schierarsi apertamente contro il regime fascista e chi invece decise di non poter scindere le proprie personali fortune da quelle di chi aveva portato il paese ad una rovinosa guerra e alle Leggi Razziali, che avevano bollato l’Italia per i decenni a seguire. Naturalmente, ci fu anche la solita zona d'ombra, quella di chi non seppe decidersi per l'una o l'altra parte e alla quale, erroneamente furono anche ascritti uomini che la loro scelta l'avevano fatta, eccome.

Tra coloro che la propria scelta la avevano fatta, in maniera estremamente decisa, fu Vittorio Staccione. Nato il 9 aprile 1904, in una famiglia operaia di Torino, fu uno dei tanti ragazzi che, ad inizio secolo, si erano innamorati del nuovo sport appena arrivato dall'Inghilterra e avevano cominciato a popolare i prati della periferia dando luogo ad interminabili partite, cui non di rado, assistevano i talent scout delle maggiori società cittadine. Proprio nel corso di una di queste partite, Staccione era stato notato da uno dei più forti e popolari giocatori dell'epoca, Enrico Bachmann, il quale aveva deciso seduta stante di portarlo al Torino. Nella società granata, aveva iniziato la trafila dalle minori, che già in quel lasso di tempo costituivano un vero e proprio fiore all'occhiello per il sodalizio granata, bruciando le tappe. Il 3 febbraio 1924, arrivò l'esordio in prima squadra, nella partita contro l'Hellas Verona giocata nel quadro del campionato di Prima Divisione, la serie maggiore dell'epoca, in sostituzione di Aliberti e al fianco di un mostro sacro come Emilio Janni. Dopo aver collezionato due presenze in quel campionato, Staccione venne mandato dalla società alla Cremonese, per consentirgli di giocare con continuità e formarsi le ossa al fine di poter rientrare alla casa madre con il necessario bagaglio di esperienza che avrebbe potuto consentirgli una ulteriore evoluzione. Come in effetti avvenne, tanto che nel campionato 1925-26, il giovanotto riuscì a raggranellare 6 presenze, fungendo da riserva per Janni o Sperone. Le presenze aumentarono arrivando ad 11 nel campionato 1926-27, quello che sarebbe terminato con la clamorosa beffa della revoca del titolo conquistato dai granata, a seguito dello scandalo Allemandi. Le buone prestazioni di cui era stato capace, spinsero, la Fiorentina del marchese Ridolfi a mettere gli occhi su di lui, considerato il giocatore capace di apportare muscoli e fosforo in mediana. Il passaggio in viola si concretizzò proprio alla fine di quella stagione, aprendo una nuova fase nella carriera di Staccione, il quale divenne in breve un punto fermo della squadra toscana, tanto che nella stagione 1927-28, giocata dai viola in Prima Divisione, la cadetteria dell'epoca, le presenze furono 13 in 14 gare disputate. Nel campionato 1928-29, la Fiorentina si trovò a disputare la Divisione Nazionale, in un torneo che avrebbe dovuto portare alla formazione della successiva serie A a sedici squadre decisa dalla Federazione. Staccione giocò, sempre con ottimo rendimento, 27 partite su 30, ma la Fiorentina non riuscì ad evitare un inglorioso ultimo posto nel girone B che la condannò alla serie cadetta. Se le cose dal punto di vista sportivo, stavano prendendo una piega non esaltante, dal punto di vista affettivo andavano in tutta altra direzione, poichè nel corso di una delle vivaci serate offerte dalla città toscana, Staccione conobbe una bionda ragazza di Fiesole, Giulia Vannetti che di lì a poco sarebbe diventata sua moglie. Purtroppo, il destino era in agguato e, nel corso di un difficilissimo parto, la giovane "Fiammetta", come era stata affettuosamente ribattezzata, vide morire la bimba tanto desiderata. Inoltre il parto era stato talmente complicato che la stessa Giulia vide aggravarsi in breve tempo le sue condizioni di salute, a causa di di una serie di infezioni che la avrebbero portata di dì a poco alla prematura morte. Vittorio Staccione uscì psicologicamente a pezzi da questa tragedia, e il suo rendimento risentì in maniera decisa di quanto era successo, tanto da portare ad un rapido declino agonistico che lo aveva portato a calcare i campetti della serie C con la maglia del Cosenza. L'ultima stagione agonistica fu quella del 1934-35, nel corso della quale indossò la maglia del Savoia di Torre Annunziata, finita la quale avvenne il rientro a Torino, ove cominciò a lavorare da operaio in una lunga serie di lavori a termine che lo misero a conoscenza delle stentate condizioni di vita in cui il regime fascista teneva il proletariato italiano. Compreso il tremendo inganno perpetrato dal fascismo, Staccione decise di impegnarsi per cambiare le cose, tanto da maturare la sua convinta adesione all'antifascismo. I tentacoli del regime erano però in agguato, tanto che ben presto fu notato e schedato dall'OVRA, la polizia segreta fascista. Il pericolo ormai incombente, non lo fece però desistere dall'impegno contro un regime che aveva portato il paese in guerra e alla fame: il 13 marzo 1944, venne catturato insieme al fratello Francesco dalle SS, in Via San Donato e, dopo essere stato portato a Verona, fu internato nel campo di sterminio di Gusen-Mauthausen il 28 dello stesso mese. Etichettato come oppositore politico, gli fu tatuato sul braccio il numero di matricola 59160. Nel lager Vittorio Staccione riuscì a resistere un anno, nel corso del quale fu ripetutamente percosso dalle SS. Proprio nel corso di uno questi pestaggi, riportò una profonda ferita alla gamba destra che mal curata causò setticemia e cancrena e lo portò infine alla morte, proprio pochi giorni prima che le truppe alleate riuscissero a liberare il campo.       
 

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31 ottobre 2011 1 31 /10 /ottobre /2011 11:35

Vercelli.jpgIl calcio odierno, è caratterizzato da un giro di soldi impressionante. Che, a poco a poco, sta rendendo la vita impossibile a realtà che una volta avevano invece grande spazio, soprattutto nel calcio italiano. Stiamo parlando delle provinciali, quelle squadre che pur non avendo grandissimi bacini di utenza, una volta riuscivano a rendere agra la vita delle squadre metropolitane, tanto da far considerare il nostro massimo torneo, proprio per la loro presenza, il campionato più difficile del mondo. Basti pensare al Verona di Bagnoli o al Cagliari di Gigi Riva, capaci di segnare una intera epoca del nostro calcio, quella nella quale la provincia si batteva ad armi pari, o quasi, con le grandi tradizionali. Purtroppo, oggi quella fase del nostro calcio può diris conclusa o quasi. Se le provinciali continuano a battagliare come possono, è praticamente impossibile che una di esse possa ripetere quelle imprese. Non resta perciò che andare a rivedere le foto sempre più ingiallite di un calcio nel quale oltre ai soldi, contavano le idee. Un calcio travolto dalla sete di guadagno, che probabilmente non tornerà più.

La Pro Vercelli, è la squadra che ha simboleggiato al meglio, la famosa scuola piemontese del calcio pionieristico. Nata nel 1903, su impulso di Marcello Bertinetti, un liceale col pallino dello sport (oltre al calcio, avrebbe praticato ad alti livelli la scherma, diventando campione olimpico di spada e sciabola), la Pro Vercelli fa i suoi esordi in bianconero, i colori della Juventus, ma ben presto, per effetto del destino, manifestatosi sotto forma di un bucato sbagliato che stinge completamente il nero della maglia, assume quel bianco che la renderà celebre. Dopo gli esordi a Campo di Marte e in Piazza della Fiera, e il trasferimento su un campo attiguo al futuro Stadio Robbiano, ben presto arriva per Bertinetti e amici (Giuseppe Milano, Sessa, Rampini, Francesco e Alessandro Visconti, Francia, Berra, Servetto e Albertini) il momento di allargare il raggio di azione. La prima trasferta delle casacche bianche si verifica a Santhià, e la vittoria riportata è la prima di una lunga fila che ben presto alimenta un entusiasmo dirompente. La crescita tecnica della squadra è incontestabile e ben presto la fama della Pro Vercelli travalica i confini regionali. Sono ormai in molti ad affermare che i bianchi sono in grado di dare filo da torcere agli squadroni dell'epoca, a partire dal Genoa e, nel 1908, la Pro Vercelli ha l'occasione di confermare questo assunto, essendo chiamata a disputare il titolo italiano a Juventus, Andrea Doria e Milanese, mentre Milan, Genoa e Torino si rifiutano di partecipare a causa della decisione della federazione di escludere i giocatori stranieri. Pur decapitato, questo torneo è un primo valido banco di prova e i vercellesi non si lasciano sfuggire l'occasione per confermare tutto il buono che si dice di loro. Un pareggio e una vittoria contro la Juventus, La Milanese e l'Andrea Doria, consegnano a Bertinetti e compagni il primo titolo. Sin dagli esordi, si segnala la fortissima mediana composta da Ara, Milano e Leone, che ben presto si troverà trapiantata in Nazionale, ma non solo loro, poichè l'omogeneità della squadra è uno dei segreti della grande forza palesata sin dagli esordi. L'altra grande dote, spesso contestata dagli avversari, è il grande vigore, che spesso sconfina in un agonismo spinto all'eccesso, tanto che non di rado gli stessi finiscono le partite con qualche uomo di meno. Alle doti tecniche ed atletiche, va aggiunto un altro segreto che dà ulteriore slancio alla squadra, le doti umane che ne fanno una vera famiglia. Basta un episodio per capire l'atmosfera che regna nelle fila vercellesi: quando si viene a sapere che Rampini riceve un sigaro dal presidente Bozino per ogni rete segnata, scoppia un piccolo scandalo, che però rientra immediatamente quando si sa che lo stesso Rampini vende gli stessi sigari per aiutare il fratello del compagno di squadra Corna, gravemente ammalato e non in grado di pagarsi le spese mediche.

Dopo il primo titolo, ne arrivano altri quattro, a conferma della statura di una squadra che, ormai, in Italia, non ha eguali. Poi, però, arriva la Prima Guerra Mondiale ad interrompere l'attività e a segnare una netta cesura nella storia stessa del calcio vercellese. Si può dire finita la prima grande epoca del calcio vercellese, poichè alla ripresa i raggiunti limiti di età di alcuni elementi, impongono la ricostruzione della squadra dalle fondamenta, che però, è resa difficoltosa dalla sempre più agguerrita concorrenza che è la diretta conseguenza del successo sempre crescente dello sport calcistico nel nostro paese. Arrivano elementi nuovi, tra i quali si segnalano soprattutto il fortissimo centromediano Ardissone, gli attaccanti Rosso e Borello e il terzino Rosetta. Proprio questi, sin dagli esordi fa capire di quale stoffa sia fatto, imponendosi all'attenzione generale per una tecnica portentosa che, però, a volte sconfina nella leziosità. Quando anche la leziosità scompare, Rosetta è pronto per il gran salto e sarà la Juventus a giovarsi delle prestazioni di uno dei migliori difensori mai prodotti dal nostro calcio. Nel frattempo però, la Pro Vercelli ha rimesso in piedi una squadra in grado di rinverdire i fasti anteguerra, come testimoniano i due titoli vinti nel 1920-21 e nel 1921-22, forse ancor più rimarchevoli in quanto ormai il calcio sta abbandonando la dimensione artigianale per avviarsi verso un professionismo sempre più spinto. Inoltre, lo sport pedatorio non è più esclusivo appannaggio di Piemonte, Lombardia e Liguria, ma sta allargando sempre più il suo raggio di azione, conquistando in pratica tutta la penisola. Nuovi attori si affacciano al proscenio nazionale, a cominciare da quel Bologna che di lì a poco farà tremare il mondo e riuscire a mantenere alti livelli in un quadro di così profonda trasformazione è un vanto per Vercelli. Purtroppo, la mancanza di mezzi economici all'altezza comincia ad incidere pesantemente sui destini dei bianchi. Il segnale del cambiamento, è dato proprio dalla partenza di Rosetta, che provoca una mezza sommossa, ma che infine viene metabolizzato dalla tifoseria. Pur perdendo colpi, la pro Vercelli riesce a rimanere su livelli di assoluta dignità, trasformandosi in una fucina di campioni che prendono spesso altre destinazioni. Basti pensare a Cavanna, ottimo portiere che si trasferirà poi all'ombra del Vesuvio, a Ferraris II, che diverrà poi una colonna del Grande Torino, al mediano Depetrini, che indosserà la casacca della Juventus per molti anni, ma soprattutto al grandissimo Silvio Piola che, esploso all'inizio degli anni '30, si troverà ben presto al centro di un intrigo che lo porterà alla squadra con le maggiori aderenze nel Regime fascista, la Lazio di Gualdi, che grazie alle manovre del tesoriere del PNF, Marinelli, se ne aggiudica le prestazioni. Il vercellese, diventerà uno dei migliori prodotti mai espressi dal calcio italiano, tanto da divenire una colonna della Nazionale di Vittorio Pozzo. E proprio la partenza di Piola in direzione Roma, sponda biancoceleste, può essere considerata l'inizio della fine della favola dei bianchi. Nel 1933-34 arriva la caduta in serie B, ove la Pro Vercelli rimane sino al 1941, premurandosi di dare al calcio italiano un ultimo, grandissimo prodotto, quell'Eusebio Castigliano che avrebbe formato con Loik e Mazzola il più straordinario reparto centrale che si sia mai visto sui nostri campi. Nell'immediato dopoguerra, la Pro Vercelli sembra sul punto di ritornare agli antichi splendori, tanto che nel 1945-46 perde il diritto a disputare la serie A solo alle ultime giornate, quando viene sorpassata dall'Alessandria. E' però soltanto un fuoco di paglia, poiché i problemi finanziari che stanno strangolando molte delle squadre che avevano fatto la storia del nostro calcio d'epoca, si riverberano in maniera pesantissima anche sulla Pro Vercelli. Che da questo momento lascia il calcio d'eccellenza, stavolta in maniera pressoché definitiva. 

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21 ottobre 2011 5 21 /10 /ottobre /2011 17:40

Auschwitz.jpgIl nome di Arpad Weisz è stato a lungo rimosso dalla storia del calcio italiano. Eppure stiamo parlando di uno dei migliori allenatori che abbiano operato sui campi della penisola nel periodo tra le due guerre. Il nome di Weisz è indissolubilmente legato al Bologna che "tremare il mondo fa", lo squadrone che nel corso degli anni '30 segnò un'epoca sia in Italia che in Europa. Nato a Solt, nei pressi di Budapest, nel 1896, era giunto in Italia nel 1924 per indossare la casacca del Padova. Un grave infortunio lo aveva però spinto presto ad abbandonare e ad abbracciare la carriera di allenatore. Nella quale aveva incontrato subito un buon successo. Nel 1926 arrivò all'Inter, squadra che da qualche anno era entrata in una fase critica, caratterizzata da una penuria di risultati che aveva infine spinto la dirigenza ad operare una netta sterzata. E proprio l'ungherese era stato individuato come l'uomo adatto ad aprire un nuovo ciclo, che avrebbe dovuto riportare i nerazzurri al vertice. E qui bisogna aprire una parentesi. Weisz, prima di arrivare nel nostro paese, aveva girato il mondo e, soprattutto, era entrato in contatto con le metodologie in voga in paesi allora all'avanguardia, come Argentina e Uruguay, adottandone le parti che meglio potevano essere adattate al nostro calcio. E lo aveva fatto bene, se si considera che con lui, l'Inter tornò presto a volare, grazie soprattutto alle prodezze di un ragazzino scovato dal tecnico nelle minori, tal Giuseppe Meazza che, a suon di reti e prodezze, si era immediatamente segnalato come un vero e proprio fuoriclasse. Proprio agevolato dalle prodezze di Meazza, nel 1929-30, l'Inter era riuscita a vincere così il suo terzo scudetto, l'ultimo prima dello straordinario quinquennio della grande Juventus e il primo nei tornei a girone unico. Intanto, però, Weisz aveva visto crescere in maniera esponenziale la sua fama. Nel 1935, si trasferì a Bologna e, proprio con i felsinei riuscì ad interrompere la dittatura bianconera, vincendo due scudetti di fila. Ai successi nazionali fecero presto seguito quelli in campo internazionale, tra i quali va segnalata la Coppa dell'Esposizione, una sorta di Coppa dei Campioni ante litteram, nella cui finalissima il Bologna distrusse il Chelsea, con un 4-1 che non ammetteva recriminazioni di sorta. Era quello il punto più alto della carriera sportiva di Weisz o, perlomeno, il punto più alto che l'evolversi della situazione politica italiana gli avrebbe consentito. Purtroppo, anche l'Italia ormai, era entrata nella parte più buia della propria storia, elaborando quelle Leggi Razziali che sarebbero rimaste a perenne testimonianza della vergogna rappresentata dal regime fascista. Per evitare la sorte che il fascismo stava preparando agli Ebrei, sulla falsariga del Mein Kampf di Hitler, Weisz aveva deciso di non stare a guardare il chiudersi del cerchio intorno a lui. Alla fine, prese la risoluzione di scappare e, nel gennaio 1939, prese la propria famiglia, la moglie Elena e i figli Roberto e Clara, e si rifugiò a Parigi, nella speranza di trovare una squadra da allenare, che non si sarebbe mai realizzata. Anche la Francia era stata ormai contagiata dalla pazzia nazista ed era impregnata da un antisemitismo estremo del quale fu pessimo esempio quell'Alexandre Villaplane che era stato capitano della nazionale francese ai mondiali del 1930 e che nel 1940 sarebbe addirittura diventato collaboratore della Gestapo. Quello che era stato uno dei migliori allenatori della sua epoca, dovette perciò scontrarsi con un muro di ostilità che fece svanire qualsiasi possibilità di una offerta di lavoro. L'offerta arrivò invece dall'Olanda, da una squadretta di periferia, il Dordrechtsche e Weisz non se la fece scappare, sperando che potesse essere l'inizio di una sorta di rinascita. Il Dordreschte era una delle più antiche società olandesi, ma non aveva mai raggiunto grandi risultati. Quando ne prese le redini, si trovava in piena lotta per non retrocedere e in effetti la salvezza arrivò soltanto grazie ad uno spareggio. Nell'anno successivo, però, la cura Weisz cominciò a produrre i suoi effetti portando la squadra ad un ottimo quinto posto, impreziosito dal successo contro il Feyenoord. Nel 1940, però, i nazisti occuparono l'Olanda e il cerchio malefico voluto dal nazismo intorno agli Ebrei cominciò a stringersi anche per coloro che erano riusciti a riparare in quel paese illudendosi di potervi trovare la salvezza. Weisz riuscì anche nel torneo successivo a portare il Dordreschte al quinto posto, ma il 29 settembre del 1941 arrivò il diktat nazista in base al quale l'ungherese non poteva più esercitare il suo mestiere. La cittadina si strinse intorno alla famiglia, permettendogli di sopravvivere, ma senza avere la possibilità di trovare i soldi necessari all'espatrio. Il 2 agosto 1942, l'intera famiglia Weisz fu rastrellata e avviata ai campi di concentramento. La prima tappa fu Westerbork, dove rimasero sino al 2 ottobre, per poi salire sul treno per Birkenau, ove il capofamiglia fu diviso dalla moglie e dai figli per essere avviato al lavoro in Alta Slesia. Il 5 ottobre 1942, Clara Weisz e i figli Roberto e Clara furono uccisi ad Auschwitz. Arpad Weisz sopravvisse grazie alla sua forte fibra sino al 31 gennaio 1944. Le Leggi Razziali volute da Mussolini avevano prodotto le ennesime vittime. 

 

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7 ottobre 2011 5 07 /10 /ottobre /2011 10:03

Schiaffino.jpgIl calcio italiano e gli oriundi, una storia infinita. Che parte dagli anni '20, quando la Federazione decise di sfruttare la carta dei discendenti di italiani per dare un ulteriore impulso al nostro movimento, in forte crescita, ma ancora in attesa di poter fare il definitivo salto di qualità per portarsi all'altezza delle squadre più forti. E poiché i campi del Sud America erano strapieni di giocatori di chiare origini italiane, la mossa sortì immediatamente i suoi effetti. Arrivarono in Italia, attratti dai lauti contratti che già all'epoca distinguevano il nostro calcio, fuoriclasse come Mumo Orsi, Libonatti, Luisito Monti, Cesarini, Fedullo, Guaita e tanti altri, alcuni dei quali ebbero un ruolo decisivo nella vittoria dei Mondiali del 1934. Che furono preceduti da una aspra polemica, dovuta al fatto che le federazioni di Brasile, Argentina ed Uruguay, timorose di vedere ulteriori defezioni verso la penisola,decisero di non partecipare alla kermesse iridata o di mandare una squadra composta da nomi minori. In effetti, l'azione delle società italiane, in quegli anni, aveva praticamente svuotato i vivai sudamericani, in quanto erano stati moltissimi coloro che attratti dalle lire italiane, avevano deciso di imbarcarsi per il Bel Paese, alla ricerca di quella fortuna che era stata negata ai loro avi. Naturalmente, non tutti coloro che arrivarono in Italia erano fuoriclasse, anzi, qualche bidone vero e proprio arrivò, intascò il premio di ingaggio e se ne tornò in patria con le tasche piene. E ci fu anche chi decise di scappare, come il grande Petrone o i romanisti Guaita, Scopelli e Stagnaro. Poi, vi fu anche la pagina dei tanti che non erano né bidoni, né campioni, spesso buonissimi giocatori che incontrarono più di una difficoltà a calarsi in una realtà diversa e difficile come la nostra. L'episodio più farsesco, riguardò un attaccante argentino, Provvidente, arrivato in Italia con un folto gruppo di connazionali, via mare. Quando la nave su cui avevano affrontato la traversata arrivò in Italia, i dirigenti di svariate squadre si presentarono per cercare di concludere quello che ritenevano un affare. In effetti, molti di quei giocatori erano stati ottimi atleti nel calcio di origine. E anche Provvidente era stato qualcuno nel calcio argentino dell'epoca. Attaccante molto dotato dal punto di vista fisico, si presentò dicendo che aveva segnato molte reti di testa, battendosi i pugni contro la stessa per rafforzare il concetto. Ed era vero, tanto che nel Boca Juniors era stato un asso e aveva segnato montagne di reti. Ma il calcio italiano era molto diverso da quello in cui era cresciuto e ben presto se ne accorsero lui e la Roma, che aveva proceduto al suo acquisto, insieme a Spitale,Campilongo e Pantò. La sua mole, molto pesante, lo rendeva estremamente lento e di conseguenza, per le munitissime difese italiane divenne un gioco da ragazzi fermarlo. Ben presto, l'iconoclasta pubblico romanista, che non si faceva pregare per affibbiare soprannomi terrificanti ai propri beniamini, si spazientì e quando nel corso di una partita, il povero Provvidente andò ad inzuccare una testa avversaria, al posto del pallone, stramazzando al suolo, la frittata era fatta. Vedendo infatti che il giocatore non si rialzava, ed anzi dava segni di forte sbandamento, dalle tribune si alzò il coro che segnò la fine della carriera italiana di Provvidente: Provolone - provolone. La Roma comunque non ci rimise, in quanto il suo sostituto era un certo Amedeo Amadei.
L'afflusso di oriundi, non si fermò neanche nel dopoguerra, anche se la mancanza di notizie dal Sudamerica, logica conseguenza degli anni di conflitto, favoriva le truffe più invereconde. E tante furono le società che caddero vittima di impresari di pochi scrupoli, che non si peritavano di mandare in Italia giocatori del tutto sconosciuti in patria, mischiandoli con altri ormai al termine della carriera. All'Inter, ancora ricordano con terrore i famosi bidoni acquistati nel 1946, Bovio, Zapirain, Cerioni, Pedemonte e Volpi. Alcuni di loro passarono più tempo sui tavoli da biliardo del capoluogo meneghino, che sui campi di calcio e quando alla fine della stagione tolsero il disturbo, ci mancò poco che non gli venisse srotolato il tappeto rosso per facilitarne il ritorno a casa. Poiché, però, nel frattempo era arrivata la vera e propria apertura delle frontiere, l’escamotage degli oriundi cominciò a perdere di intensità, salvo riprendere quando la Federazione decise di limitare a due il numero degli stessi. A quel punto, le società riaprirono decisamente la pista sudamericana, con risultati spesso eccezionali. In quegli anni, infatti, arrivarono tanti fuoriclasse come Ghiggia, Da Costa, Angelillo, Schiaffino, Lojacono ed altri, che furono presi di peso e trapiantati in una Nazionale che, dopo la tragedia del Grande Torino, stentava a tornare ai consueti livelli. Si arrivò così alla farsa del 1958, quando la nostra selezione fu sbattuta fuori dai Mondiali dall’Irlanda, nonostante fosse infarcita di argentini e uruguayani, tanto da suscitare i salaci commenti degli irlandesi, che comunque non si misero paura e buttarono fuori per la prima ed unica volta la nostra selezione. Questa seconda ondata, terminò nel 1966, all’indomani della ingloriosa sconfitta con i “ridolini” coreani a Middlesbrough, che spinse la Federazione a sbarrare le frontiere. Sarebbero passati tre lustri, prima che le stesse fossero riaperte. E anche gli oriundi dovettero aspettare a lungo, anche di più, per tornare a caratterizzare il nostro calcio. Il primo a tornare a vestire la maglia azzurra sarà Camoranesi, tra le polemiche di chi è ancora legato all’idea che una squadra nazionale dovrebbe essere composto soltanto da chi è nato o si è formato nel nostro paese. Giusta o sbagliata che sia, questa impostazione, continuerà a suscitare grandi polemiche, soprattutto in un momento storico come l’attuale, caratterizzato dai grandi movimenti migratori che sono uno dei portati storici della globalizzazione.

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